Nel bacio degli amanti / che si scambiano i silenzi

c'è una storia da buttare / un'altra tutta da rifare pauline ledrec

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    "La prossima volta che mi innamoro", disse Pauline "ricordami di fermarmi, Costance."


    Edited by TheFedIvan - 14/1/2017, 22:48
     
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    febbraio duemilaquindici


    Sinceramente, l'idea non le piaceva nemmeno un po'.
    Dio li fa e Dio li accoppia, e quell'uomo sarebbe stato l'uomo perfetto per l'integerrimo Whitefog che non la conosceva abbastanza da farle capire BENE a cosa andava incontro. Eh certo, per loro era così normale ma per la ragazzina non era affatto facile. Probabilmente quella era stata l'esperienza più faticosa della sua vita, e la povera anima in pena non sapeva a cosa sarebbe andata incontro.
    Ma partendo dal principio, quella mattina era andata di nuovo al Ministero per capire cosa fare di quella creatura che aveva recuperato durante la famosa lezione di trasfigurazione. Per un attimo si era chiesta perché non avesse preferito adottare un gattino con sei zampe o una di quelle altre creature un po' problematiche piuttosto che dover seguire tutto quell'iter burocratico che la appesantiva più di quanto pensasse. Appena si era seduta sulla sedia all'interno dell'ufficio di quell'uomo aveva sentito lungo la schiena un brivido così brutale da farla quasi svenire. Emanava una specie di aura terrorizzante, unita alla strana situazione che soltanto quando il suo sguardo si era poggiato sul proprio, soltanto in quel momento le fece comprendere come quella nuova specie di avventura si sarebbe svolta, e si trattenne dal fare la figura della deficiente scappando via a gambe levate per correre a casa a giocare coi modellini di treni del fratello di un anno più piccolo. Tenne lo sguardo fisso nel suo, gelido, ed egli le spiegò cosa significassero le parole "Addestramento Coercitivo" in quella situazione. Le risposte del corpo di Pauline a quell'occasione particolare non furono altro che scatti nervosi, respiri mancati al pensiero di ciò che sarebbe dovuto accadere durante quei cinque mesi di addestramento.
    Alla domanda, che sembrava piuttosto una domanda retorica, se fosse quello ciò che la ragazzina aveva intenzione di intraprendere, lei risposte con un sì secco e falso come una banconota da 42 galeoni, ma che sembrava molto più realistico di quanto pensasse, tant'è che l'uomo terminò quasi schifato di compilare una serie di scartoffie da fare firmare a suo padre per autorizzarla a procedere con la distruzione psicologica della bestia.
    Poi con un gesto che Pauline non volle intepretare in nessun modo, congedò la ragazza, invitandola a presentarsi il giorno stabilito, che probabilmente sarebbe stata la domenica successiva e la serie di scartoffie da archiviare in quello che sarà un vecchio plico buttato in un archivio puzzolente.

    [CINQUE MESI DOPO]

    L'Addestratore, invece, era uno spettacolo di essere umano.
    Umano, e che si legga bene, UMANO. La prima domenica del suo addestramento, la ragazzina aveva ancora sul collo il fiato caldo di Whitefog che la invitava a restituire intatta la gabbietta nella quale aveva collocato la creatura e le gambe erano molli come due budini al caramello appena sfornati. Aveva paura. Probabilmente anche la creatura aveva percepito quel terrore che aleggiava nell'animo della ragazza ed aveva iniziato a comportarsi nella maniera che più si confaceva alla sua razza. Con una frenetica danza, una volta entrati all'interno della sezione del Ministero che si occupava del suo caso, aveva iniziato a fare rumori assurdi all'interno della gabbietta coperta da un telo nero nella speranza che un Imp funzionasse come un canarino.
    Però, quello che si era trovato davanti era tutto tranne che il mostro che aveva immaginato.
    Non si sa per quale motivo, la ragazzina aveva immaginato un uomo nerboruto, dal capello rasato alla militare ed un tatuaggio a forma di cuore con scritto "mamma" al centro stampato sul pettorale destro. Una specie di montangna tatuata capace di stritolare sotto la sua possente forza una creaturina così piccola che avrebbe saputo come dare del filo da torcere.
    Eppure, chi le si presentò davanti era tutto fuorché l'immagine scaturita dalla sua FERVIDA immaginazione. Era un uomo alto, smilzo, dal viso allungato ed il naso leggermente importante. Il suo volto era scavato sulle guance e sembrava che a toccare le rigide ossa del suo cranio fosse soltanto un sottile strato di pelle, tanto sembrasse deperito. Una lunga chioma di un biondo chiaro legata in una coda alta lasciava scivolare una serie di ciocche morbide lungo il viso che non sembrava avere una tonalità rosea normale, ma anzi, avesse un non-so-che di grigiastro, quasi cadaverico, e gli occhi di un nero spettrale erano allungati ma pur sempre occidentali ed erano filtrati da delle sottili lenti quadrate che probabilmente gli servivano soltanto a fare il figo.
    La serpeverde lo guardò e si avvicinò a lui che non si presentò prima della terza settimana (e quindi del terzo appuntamento di quei cinque lunghi mesi), come se sperasse che la ragazzina dopo un po' fuggisse realmente.
    Pauline aveva avuto una sorta di ammirazione istantanea per quell'uomo che si era presentato tanto burbero e ligio al dovere per poi diventare per la serpeverde il secondo vero motivo per andare ogni giorno lì e prendere fra le mani quel collare elettrico. E quella mattina si stava recando da Mr. Simpatia Rogers per raccontargli i cinque mesi di allenamento come se lui non si fosse mai affacciato come un corvo dalla finestra per vedere quanto soffrisse la serpeverde.
    Di sicuro, quell'addestramento aveva forgiato anche lei, in qualche modo ed adesso il suo sguardo puntato in direzione dell'uomo era più deciso e quasi pronto a non voler dargliela vinta così facilmente. Dopo essersi ripresentata, aver firmato un po' di carte ed essersi lisciata la gonna per evitare che si formassero pieghe fastidiose, iniziò a raccontare all'uomo quello che era accaduto in quell'addstramento durato cinque mesi.
    Ovviamente la ragazzina non si soffermò a parlare di quanto fosse stata fondamentale la figura del suo addestratore nel corso di questo corso, e si mantenne sempre sul preciso per quanto riguardasse la mera descrizione dei fatti. Sicuramente non aveva alcuna intenzione di fare la figura di addestratrice provetto, una specie di Mozart del pugno di ferro e per prima cosa espose le sue difficoltà.
    Parlando con l'uomo fece riaffiorare i ricordi dei primissmi giorni: dopo essere stata portata in quella zona che a quanto pare era una specie di Tupperwere magico, aveva liberato senza alcuna preparazione l'Imp al centro della zona e si era dimostrata un vero disastro. La creatura era sgusciata fuori dalla gabbia nonappena la serpeverde aveva liberato l'apertura e con gesti scomposti aveva saltellato a destra e a manca, nascondendosi ovunque col mero tentativo di sparire dalla faccia della terra e probabilmente scavare una fossa che lo portasse direttamente a casa. L'uomo con un gesto della bacchetta così fluido che sembrò avesse fatto soltanto quello in tutta la sua vita, aveva riportato la creatura in una specie di morsa magica che non lo permetteva di muoversi ed aveva dato inizio all'addestramento.
    La ragazzina aveva osservato la creatura che non sembrava per niente sofferente, anzi. Aveva sul viso quello sguardo così fastidiosamente insolente da farla innervosire al solo pensiero ma di certo non era stata capace di prendere in mano la pettorina delle dimensioni di una Barbie da applicare al busto della creatura. Premere quel piccolo pulsantino che teneva in mano era un dolore ogni volta, come se avesse dovuto sentire su di sè la stessa leggera scarica che in un corpo così piccolo scombussolava la creatura continuamente. Infatti le prime volte aveva sentito così tanta fatica nel seguire la creatura con lo sguardo e raccogliere le forze per premere quella scarica ogni volta che aveva intenzione di richiamare la bestia, che le prime prove non erano altro che pochi minuti di terrore che venivano interrotti dall'addestratore che le porgeva una caramella e la invitava a presentarsi più carica la settimana successiva.
    A poco a poco la ragazzina ebbe il coraggio di premere da sola quel pulsante e mentre eseguivano insieme dei percorsi, spesso ad ostacoli che provocavano una serie di lividi sulle ginocchia della ragazzina, si rese conto sempre più velocemente che la creatura forse aveva iniziato a rispondere ai suoi richiami senza necessariamente l'ausilio della violenza. Fino a metà del corso, disse al ministeriale, si preoccuparono di adoperare soltanto una diversa gamma di pettorine più o meno potenti, che permettessero di insegnare alla creatura a rispondere ai richiami della serpeverde il più velocemente possibile.
    Sicuramente, però, tutto quel primo addestramento serviva soltanto a fargli comprendere cosa significassero gli ordini imposti dalla ragazza, a riconoscere la voce della sepeverde ed in caso a rispondere solo a lei. Fino a quel momento, infatti, l'uomo non aveva proferito parola se non per testare quanto la creatura a stessa intensità di scarica sul proprio corpo, comunque rispondesse solo e soltanto ai richiami della ragazzina.
    Appena terminata la prima parte del suo racconto entusiasmante, la ragazzina lievemente accaldata dall'entusiasmo che aveva nel ricordare quegli eventi passati ma ancora così vividi sulla mente, chiese se poteva dissetarsi con un bel bicchiere d'acqua ed appena le fu concesso arrotolò le maniche della camicia bianca che indossava per poter gesticolare con più agiatezza per raccontare tutto il resto della storia.
    La creatura, purtroppo, una volta tolta la pettorina elettrica, non aveva alcuna intenzione di rispondere ai richiami della ragazza, benché si voltasse sistematicamente al sentire la sua voce, per il resto tutto ciò che diceva non era altro che aria fritta. Quindi dovettero ricorrere a delle maniere un po' più forti. Per le prime lezioni, fu l'uomo ad intervenire al posto della ragazzina, per spiegarle come lanciare degli schiantesimi di bassa intensità nei punti esatti per far comprendere alla creatura di dover ascoltare ed eseguire ciò che la voce della sua padrona diceva.
    Di sicuro aveva omesso quante volte aveva abbandonato, sotto conferma da parte dell'addestratore, un frutto all'interno della gabbia come ricompensa per il lavoro svolto, e sicuramente il carattere spigoloso dell'animale si era addolcito anche in questo modo.
    L'Imp, adesso rispondeva esattamente ad ogni suo richiamo. Se veniva sorpreso a fare qualcosa che non doveva fare, qualcosa della lista delle azioni vietate (per esempio scavare delle fosse grandi quanto un piede umano e ricoprirle di foglie secche, benché vedere inciampare l'addestratore un paio di volte fosse divertente), ormai non serviva più che la ragazzina estraesse per finta la bacchetta per minacciarlo con uno schiantesimo, che ad un suo urletto la creatura alzava le mani al cielo come se fosse in arresto.
    L'ultima parte dell'addestramento, quella che alla serpeverde era piaciuta di più, era che sì si doveva mantenere il rapporto di superiorità fra lei stessa e la creatura, ma essa per imparare a preservare la propria incolumità, aveva deciso di mantenersi sempre distante dalla futura padrona, e questo non le permetteva di tenerla con sé come aveva sperato.
    L'animale aveva effettivamente paura e quel senso di appartenenza che aveva intenzione di stipulare con la creatura era venuto meno con la tecnica del pugno di ferro che aveva dovuto adoperare per quelle prime due parti del corso. L'uomo, il cui nome, alla fine, scoprì essere Kite, aveva avuto i serbo per lei e la creaturina una meravigliosa prova di coesione fra i due animi. Questa volta, però, coinvolgeva entrambi, la ragazzina e la bestia magica. L'uomo aveva portato in quella terz'ultima settimana due oggetti strani che avrebbe consegnato alla ragazza che sarebbero serviti per fortificare il legame fra la creatura e la ragazza. Erano due cavigliere di diverse dimensioni, una molto piccola ed un'altra abbastanza grande da poter essere della misura perfetta per la ragazza.
    Come prima cosa, agganciò con un sonoro clangore la cavigliera intorno alla gamba sinistra della serpeverde, la quale si meravigliò di colpo nel rendersi conto di quanto fosse impalpabile, estremamente leggera, e allo stesso modo fece con la versione extra small di essa, che agganciò intorno alla gambetta della creatura magica che aveva imparato a stare seduto a gambe incrociate al centro della gabbietta.
    La particolarità di queste cavigliere, era l'incantesimo che vi era stato applicato. Anche se non sembrava, date le dimensioni, i due oggetti erano delle copie esatte l'uno dell'altro ed avevano la stessa peculiarità: diventavano sempre più pesanti con l'aumentare della distanza fra esse.
    Ecco svelato il mistero! Li aveva obbligati ad una convivenza forzata. Fortunatamente quelle settimane erano delle settimane in cui la ragazzina per diverse vicessitudini personali avrebbe dovuto passare a casa e non dentro le mura di Hogwarts, permettendole così di potersi allenare anche da sola durante la settimana con la creatura magica.
    Effettivamente questa soluzione forse non molto ortodossa era stata la più efficace. Per evitare di sentire sempre e continuamente questo dolore, la ragazzina aveva realizzato con delle vecchie stoffe una specie di fondina da attaccare al polpaccio, così da permettere alla creatura di collocarvisi all'interno, nonappena avesse compreso che, no, non aveva alcuna speranza di scappare dato che la cavigliera si sarebbe fatta così tanto pesante da artigliarlo al terreno.

    Ed adesso il corso era finito così come il racconto che la serpeverde aveva esposto con così tanto entusiasmo. Quindi venne scortata dall'uomo, mentre teneva in mano la gabbietta, verso il retro dell'ufficio, al centro del quale si collocarono ed iniziarono quella che poteva sembrare quasi come una prova finale.
    La ragazzina aprì la gabbietta con un gesto della mano e la creatura ne fece capolino fuori come se non sapesse dove i tre si trovassero. Camminò lentamente ed alzò lo sguardo in direzione della ragazzina come se la supplicasse, poi scosse la testa in direzione delle foglie ammonticchiate in un lato e la ragazzina rise fra se, rendendosi conto quanto facesse antipatia pure a lei il simpatico addestratore. Rise, scuotendo la testa e si inginocchiò per sganciare entrambe le cavigliere e poggiarle da un lato.
    Nel momento in cui la creatura non sentì più il peso del metallo leggero intorno all'articolazione, si avviò in una rapida corsa intorno alla ragazzina, come a voler dimostrare di essere davvero molto più veloce di quanto sembrasse e poco dopo si avvicinò a lei, andandosi a sedere sulla sua scarpa.
    Effettivamente quel giorno non indossava la sua rudimentale fondina e quindi l'animale avrebbe dovuto muovere le zampette in una camminata decisa in direzione dell'uomo la cui espressione sembrava sempre più scettica. Come se non bastasse, la ragazzina si chinò in direzione della creatura e gli bisbigliò qualcosa all'orecchio: essa scattò in una rapida corsa e raggiunse un albero, dal quale colse un gorsso frutto molto più grande del suo stesso corpo ed iniziò a mangiucchiarlo.
    La serpeverde con un sorriso si rivolse all'uomo e alzò una mano richiamando la creatura con un fischio. La bestia scese e raggiunse il piede della serpeverde ed alzò lo sguardo in direzione dell'uomo. Allo stesso modo fece la ragazza, sorridendo in attesa di un responso da parte sua.
     
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    GENNAIO DUEMILADICIASSETTE

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    Quando Pauline si ritrovà in quell'ambiente, in un attimo ebbe piazzata davanti agli occhi l'enorme fortesta che profumava di vita che si trovava vicinissima alla propria tenuta. Quando il docente si collocò un po' inginocchiato sul terreno, Pauline non perse un attimo per incrociare le gambe a terra e iniziare a giocare coi fili d'erba mentre Wyatt spiegava tutte le informazioni necessarie a comprendere il funzionamento e caratteristiche dell'aura: colore, odore, forma e forza erano le caratteristiche principali di un'aura e Pauline non sapeva per niente quali sarebbero stati i propri.
    La spiegazione era quasi finita e Wyatt invitò le ragazze ad alzarsi. Pauline si sistemò piano la gonna con le mani mentre il docente sembrava ripetere un mantra che convinse sempre di più la serpeverde a concentrarsi nella situazione: Vedere con Acume, Udire con Chiarezza, Gustare con Purezza, Toccare con Sensibilità e Odorare con Intensità.
    La natura sarebbe stata la chiave di tutto, grazie ad essa sarebbero stati capaci di attivare l'aura, anche grazie all'aiuto dell'ex corvonero che, rapidamente, poggiò il palmo della mano sul petto di Pauline e scaricò un po' della sua Aura in lei. La ragazza in un attimo, si sentì come spinta indietro da una forza molto più forte di quanto i suoi piedi pensavano di trattenere: poteva chiaramente vedere ancora un pizzico di quell'aura dorata provenire dalle mani del ragazzo che si era spostato ad "attivare" le altre e rimase un attimo col fiato sospeso.
    Era come se fosse in un mondo completamente diverso, l'aura penetrata in lei le aveva dato una forza tale da ritrovarsi brutalmente scagliata indietro tanto da doversi sedere per terra. Nonappena poggiò le mani a terra, iniziò a sentire come degli aculei trapanarle la pelle: gli steli d'erba, morbidi e candidi, sembravano quasi delle lame quanto era forte la presenza delle piccole punte accuminate così come i granelli di terra stridevano contro la sua pelle un po' umida. In un attimo sentì il grattare dei collant divenire più forte, lo sfrusciare della gonna sulla pelle sfregare la pelle candida con una forza che non pensava fosse percepibile fino a quel momento. Il maglione che indossava, sopra la camicia, sembrava penetrare la stoffa stessa della camicia per grattare la pelle di Pauline ed i capelli, scivolati sul collo della ragazza, le sembrarono avvolgersi a lei in una morsa estremamente forte. Passandosi una mano al collo per scostare i suddetti capelli, la ragazza percepì come una serie di colpi, le si infrangessero sulla mano e nel poggiare di nuovo a terra la stessa poteva quasi sentire la forza con cui le radici dell'erba si aggrappavano al terreno. Portando una mano a raccogliere un piccolo grumo di terra, poteva sentirne gli aggregati che ne facevano parte, riconoscere la morbidezza delle particelle umide di terriccio misto a quel pietrisco inconsistente e vetroso che sembrava graffiarle le mani. La vista l'era diventata d'un tratto in 4K, i colori di una vividezza che non aveva mai percepito, lo sguardo che adesso si muoveva a destra, a sinistra, sopra e sotto alla velocità della luce, alla ricerca di un'immagine sempre più nitida, sempre più reale. Poteva alzare lo sguardo e vedere i contorni netti delle nuvole o la sagoma ben delineata della luna, opaca nel cielo luminoso e giornaliero. Non potè, però, alzare lo sguardo al cielo per colpa della luce del sole che anche se fosse dietro gli alberi le sembrava accecarla. Dovette stropicciarsi un po' gli occhi, percependo la morbidezza delle sue ciglia nelle mani, mentre inspirava a pieni polmoni l'odore dell'aria.
    Se sapesse distinguerli, in quel momento, avrebbe potuto dire in quale quantità vi fossero i componenti dell'aria, tanto che nel riguardarsi intorno potè annusare addirittura, da seduta, il profumo della tinta di Amethyste, qualche metro più in la da lei. Con gli occhi adesso chiusi, ancora non abituati alla luce del sole, continuò ad inspirare con lentezza l'aria che, con calma, le scivolava lungo le narici ed andava a raggiungere i polmoni: poteva sentire gli odori delle sue scarpe, del detersivo per gli abiti, della colonia di Wyatt ed addirittura della terra, dei singoli steli d'erba. Deglutì lentamente, sentendo l'aria sferzare i movimenti delle fronde in lontananza che a loro volta sembravano star liberando spore di magnifico odore. Era questo l'odore della natura, non poté descriverlo, non si può descrivere a parole qual è l'odore dell'aria stessa.
    Eppure lei lo riusciva a sentire, come sentiva l'aria fredda sferzarle come un l'iceberg del Titanic, contro i denti e contro la lingua che schioccava sul palato alla ricerca di una sorta di comprensione. Il sapore che percepiva nelle labbra era di quel dolce all'amarena che aveva assaggiato la mattina, presto, rubato di nascosto dalla dispensa della sala comune. Ricordava quel sapore con piacevoli movimenti delle labbra, arse anche loro dal desiderio di bere un sorso d'acqua. Prendere cosicenza con la vera essenza del mondo rese la serpeverde consapevole di ciò che la circondava, di quel mondo realmente magico che non aveva mai provato e che probabilmente nessuno avrebbe mai sentito come lo stava sentendo lei. Gli occhi rotearono lentamente, adesso abituati alla luce, mentre con cautela tentava di mettersi in piedi: era certa, in quell'istante, che se tutti coloro che non amano la natura avessero avuto l'occasione di ricevere un trattamento del genere, avrebbero capito cosa manca nella loro vita.
    Per Pauline era un privilegio ma anche una sorta di sofferenza rendersi conto che non tutti potevano avere la sua fortuna. Poi, chiuse gli occhi e strinse i pugni, mordendosi le labbra mentre abbassava la testa e respirava lentamente quell'aria che pungeva di spore di funghi all'interno del suo naso. "Come si attiva l'aura?" pensò. Il docente aveva spiegato tutto senza spiegare il passaggio fondamentale?
    Forse perché non c'era un vero modo di attivare l'aura. Sentiva le scarpe stringere nei piedi così come i capelli pendere dalla testa, le mani tremavano un po', coperte ancora di quella terra che pizzicava mentre alle narici iniziava ad entrare un odore dolce. Non riconosceva bene quale fosse, il suo cuore batteva a mille perché quell'odore era forte ed era più che certa che fosse comparso adesso, come ad imporsi nel contesto in cui si trovava. Aprì gli occhi e capì di avere sotto il naso l'odore caratteristico della sua aura. Un odore dolce, di una dolcezza estiva e raggiante, come se fosse stata avvolta dalla testa ai piedi di una montagna di gelsomini. Quando aprì gli occhi, la prima idea era che la sua aura fosse verde: il verde era il suo colore preferito, il colore che l'accompagnava da una vita, che guardacaso faceva pure parte della propria tinta di casata, eppure non dico che ne rimase delusa, ma oltremodo sorpresa.
    Il suo corpo era interamente coperto da una luce, brillante, accesa. Non fastidiosa come il giallo, non passionale come il rosso. Ciò che la circondava era un'intensa coltre di nebbia di un arancio tenue ma vivace. Si guardò intorno e vide davanti a se un vorticare di luce che per un attimo la sconvolse. Allungò una mano, la mano sottile ed ossuta, dalle unghie perfette davanti a sé e si vide avvolta da questa luce calda, che le infondeva sicurezza e che, diciamolo, col verde del suo cardigan stava una favola. Quindi quella era la sua aura? Quindi quello era il suo colore, l'odore di dolci gelsomini che celano al loro centro un corpo aranciato fonte di tanto profumo.
    Quella era la sua aura, quella era lei.

    ArancioneGelsomino
    L'Aura di Pauline l'avvolge interamente ma in modo dinamico: la sua aura infatti sembra ruotare intorno a lei come un satellite ruota intorno al suo pianeta e per discostare il profumo che ne deriva deve necessariamente muoversi, come ad allotanare con la forza la propria aura, fermamente adesa al corpo della ragazza. Quando si muove delle tracce di Aura, allungate ma corpose fuoriescono dal suo corpo e si dissolvono con delicatezza aprendosi come un fiore che sboccia.
     
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    FEBBRAIO DUEMILASEDICI



    Fino alla fine del secolo
    fino alla fine di me
    il tempo regali
    sorrisi a te
    e non ci dispensi
    dalle solite lacrime
    che quelle se passano
    come passavi te
    di certo
    non tornano
    come non torni
    più tu da me
    nemmeno per un caffè

    Fino alla fine del secolo
    fino alla fine di te
    il cielo continui
    a nasconderti da me
    che se ti ritrovo
    non ti posso più perdere
    ed io ti catturo
    dentro mille stelle che
    di certo
    non scappano
    come scappavi
    ogni volta tu da me
    lo vuoi questo caffè?
    ti prego finisci questo secolo
    accanto a me
    avremo altro tempo insieme
    per un caffè

    Fino alla fine del secolo
    fino alla fine di me

    Bah, San Valentino era una festa che, a conti fatti, detestava.
    Ma non poco... Detestava come quando sei in pizzeria e ti mettono il ketchup su tutte le patatine.
    Probabilmente perché non aveva un amabile ragazzo con cui passaro o semplicemente perché era certa di non poter avere speranze di farlo. Diciamolo chiaro, Pauline era una frana nei rapporti interpersonali, immaginiamo con quelli sentimentali. Diciamo anche che in quel periodo gli ormoni e tutto ciò che ne concerne facevano grande festa nel corpo di Lina facendola interessare a qualsiasi individuo di sesso maschile e vagamente piacente nel raggio di una decina di metri.
    Ma preferisco ritornare a Pauline che, fortunatamente ebbe un'altra motivazione più interessante per uscire da quel suo bozzolo di coperte, cioccolata e tristezza per raggiungere il locale che avrebbe offerto alla modica cifra di 2 Galeoni, gattini, cioccolata e tristezza condita con un po' di mal comune, mezzo gaudio con tanti single a portata di mano. Era certa che all'evento avrebbe incontrato solo ragazze amanti dei gatti e nonostante non contemplasse il passaggio all'altra sponda almeno avrebbero avuto qualcosa di cui parlare.
    O3mhUVn
    La serpeverde aveva deciso di vestirsi da signorinella per uscire dalla propria sala comune e raggiungere il locale. Ormai era cresciuta anche un po' di più, il corpicino alto e slanciato, più alto della media, ma su questo non avevamo dubbi, le permetteva di poter indossare, sulle gambe sottili dei collant scuri che sagomavano ancora di più le sue forme appena accentuate e decorate da una gonnellina color panna a pieghe delicate. Dopo tanto tempo, tirandosi su i capelli arancioni con un po' di ricrescita scura in una crocchia disordinata si sentiva quasi carina. Ma non esageriamo.
    Diciamo anche che non riusciva a camminare molto bene con quelle scarpette abbinate per avere lo stesso colore della maglia ma semplicemente perché erano un po' strette.
    Raggiunto rapidamente il locale, Pauline aprì la porta e subito venne invasa dal calore della stanza che, in un miagolio la accolse. Con un sorriso prese fra le mani il sacchettino di croccantini offerto dal locale per concederne un paio al gattino dal pelo ambrato che le si era strusciato fra le gambe provocandole dei brividi. Poi il suo sguardo si mosse nella sala, vide Jade, Amethiste ed Isobelle intente a giocare coi gattini, poi, alla ricerca di quache altro volto noto, vide quello di una persona in particolare.
    "Lestat..." Si ritrovò a sospirare mentre mordeva disperatamente le proprie labbra incerta di trovarsi in una specie di incantesimo, uno di quegli orribili incantesimi fatti di proposito per illuderti di trovare qualcuno che ti manca, lì, davanti a te, o forse no, ma non si avvicinò. Rimase immobile, in piedi a lato dell'entrata, con la mano che tremava mentre sentiva tutto sgretolarsi dentro di sé.
    Non era possibile. Era un sogno o forse un incubo.
    Ancora non l'aveva ben capito.


    Pauline non aveva più capito nulla. Gli occhi le si erano appannati in un attimo che l'ha resa glaciale. Un'espressione persa nel vuoto più assoluto mentre i propri occhi mortali non potevano fare altro che intravedere una forma disgraziatamente veloce farsi spazio fra la folla e ritrovarsi proprio lì, a pochi centimetri dal proprio corpo con un'alone di morte intorno da farle venire i brividi.
    Non alzò lo sguardo, come pietrificata continuava ad osservare la poltrona dove il ragazzo si trovava seduto oltre la spalla dello stesso mentre qualcosa di gelido spostava l'aria di fronte le sue labbra in un sussurrare macabro che, no, non le sembrava né di buon gusto né appropriato in quel momento. La ragazzina, perché di ragazzina si tratta, in quell'attimo teneva ancora lo sguardo disperso nel vuoto quando il primo movimento, in tutta risposta a quelle parole un po' macabre fu un portare le mani avanti. Portate avanti in direzione del petto del ragazzo nello sfiorare la maglia che fasciava perfettamente il corpo dell'eterno sedicenne, quindicenne o quel che fosse. Come a volersi rendere conto della reale presenza del ragazzo lì, davanti a lei, come a volersi accertare di non trovarsi davanti ad un'illusione o ad uno scherzo di cattivo gusto. Alla seconda frase pronunciata dalla voce del giovane collega dei Breathers, la ragazzina alzò quasi con un gesto di scatto, brutalmente automatico, lo sguardo verde verso quello adamantino del ragazzo tentando di sbloccare il proprio corpo fallendo miseramente. Era tutta completamente intorpidita, il collo quasi scricchiolava nell'osservare il ragazzo quasi alla sua altezza, aiutata anche dai tacchi, però il braccio destro fremeva e, rapido, si alzava addirittura senza pensarci più di tanto. Dritto in direzione del suo viso che, per quanto bello, necessitava di ricevere uno schiaffo.
    O, diciamo più semplicemente, Pauline necessitava di darlo. Uno di quegli schiaffi liberatori, quelli che ti tieni in serbo per i momenti più teatrali e sperò vivamente di poter riuscire nel proprio intento.
    "Sei uno stronzo." Riuscì solo a dire, in un attimo di brivido mentre il proprio corpo fremeva alla ricerca della forza di poter dire altro. "Sparisci per un anno e più e ti presenti qui con un "hai l'aria di aver appena visto un cadavere"?! Beh, per quanto mi riguarda potresti anche esserlo, dato che non ho la più pallida idea di che fine abbia fatto in questi mesi." Tremò, su sé stessa, mentre con i denti sulle proprie labbra tentava di mantenere la calma, di non urlare, ma allo stesso tempo provava a contenersi dal mordersele a sangue. C'era qualcosa, di strano, in quel ragazzo, ma Pauline ancora non lo poteva capire.


    Toccando il busto di Lestat Pauline poteva perfettamente notare quanto gelida fosse la sua pelle oltra l'esiguo strato di stoffa della maglia che ora non sfiora che con la punta delle dita della mano sinistra mentre la destra veniva ostacolata nel colpire il viso del bel ragazo in un gesto pieno di stizza e di fastidio per la situazione che non fa altro ch confonderla. In quel momento il proprio viso sembrava mutare fremere sottopelle come se la propria abilità di metamooprhomagus volesse irrompere in quel momento mostrando Genevieve per nascondere il terrore nel volto della ragazzina ma no, si trattenne.
    Quella era una situazione che doveva finire, che doveva mettere un punto alla fine di un agognato anno di mancanze e sofferenze, di tentativi vani di dimenticare e dolore che la portavano a nascondersi continuamente sotto una maschera, che seppur parte della sua natura, non la aiutava a frontare a muso duro la vita e le violenze che le venivano sbattute contro.
    La mano destra della serpeverde, alzata in aria per colpire ilsuo viso, ebbe un intralcio al suo percorso dalla mano giacchiata del ragazzo che, stringendo il suo polso bloccava con una morsa ferrea il suo braccio. Le mani erano fredde. Il calore del corpo vivo e pulsante di Pauline veniva dispero e trasmesso in modo fallimentare attraverso la pelle del non-morto tentando per natura di riscaldarlo, ma ricevendo in cambio solo e soltanto gelidi brividi che dal polso estro sembravano pervaderla in tutto il corpo. In tutto quel frangente la sua voce le trapanava le orecchie, incapace di concentrarsi per quel rimbombo incapace di comprendere davvero le parole del ragazzo.
    "Non puoi essere morto. Sei qui." seppe dire soltanto in quel momento, senza nemmeno lontanamente immaginare di trovarsi letteralmente ad un appuntamento con un vampiro, dato che per lei i vampiri potevano essere tanto reali quanto non, non avendone mai visto nemmeno uno e non in televisione. La sua mente era vuota, nulla sembrava echeggiare lì dentro, incapace di riuscire a pronunciare una parola dopo l'altra con vago ordine grammaticale mentre il cuore che pulsava a mille probabilmente annebbiava i pensieri e le parole. L'unica cosa che riusciva a sentire erano le parole del ragazzo che, con quella voce atonale, sembrava tentare di mantenere la calma mentre la ragazzina era tutta un fremito di nervosismo e rabbia. "Un Vampiro..." ripete, senza in realtà comprendere bene il significato delle proprie parole né di quelle del ragazzo che sembra essere piuttosto cauto soprattutto nell'avvicinarsi lentamente al volto della ragazza. Le sue labbra, il suo intero viso a pochi centimetri dal viso della ragazza emanavano un candore gelido che sembrava rasserenare il volto della ragazza che, liberatasi dalla stretta del ragazzo adesso stava sfiorando con la stessa mano poco prima adoperata per colpirlo il suo viso in una lentezza che sembrava disconoscere. "Rimarrai così per sempre?" chiese, in quel tono di innocente infantilità che la caratterizzava mentre gli occhi smeraldini sfioravano con delicatezza la sua figura. "Fortunata colei che ti avrà al fianco per sempre..." Mormorava, sentendo già il proprio naso sfiorare il suo in quella impercettibile vicinanza.

    Le labbra di Lestat erano talmente vicine a quelle della ragazzina serpeverde che poteva quasi sentirne il sapore. Quel misto di gelidità e piacere che le faceva fremere lo stomaco nonostante si trovasse davanti a quella che sarebbe stata la versione eterna di Lestat e non colui con cui poter crescere insieme. Per nulla al mondo avrebbe desiderato essere condannata ad una vita eterna e profondamente sola come quella che poteva prospettarsi per una creatura del genere, ma non per questo motivo aveva intenzione di lasciar scappare via il ragazzo da lei un'altra volta. No, almeno non senza mettere un punto alla situazione che le aveva riempito il cuore di sofferenza per quei mesi. Che dopo il punto ci fosse un altro paragrafo o semplicemente la parola "fine", la ragazzina non lo sapeva, ma beh, una cosa per volta.
    Era bello sapere che dovevano uccidere Lestat per permetterle di averlo così vicino. Sorrise fra sè, un sorriso amaro nel constatare l'appena detta informazione che mentre con la mano sinistra continuava a sfiorare la stoffa della sua maglia, con la destra alle sue parole sussurrate all'orecchio andava a sfiorare il suo viso, in una lenta carezza, non romantica, proprio affettuosa, di chi ancora non crede di avere davanti qualcuno che non vedeva da così tanto tempo. "E che c'è di male..." Esordì qualche istante dopo alla sua considerazione su Giuliet. Perché non poteva continuare fra loro? Da una parte ne fu lieta, non avere più tra i piedi la ormai ex del ragazzo che si trovava davanti era effettivamente la soddisfazione più grande della situazione, ma d'altra parte, come poteva anche solo pensare di poter aggiungere un nuovo paragrafo a quella situazione, se le premesse erano quelle? "Essere immortale può avere i suoi vantaggi. Se vivi una vita eterna completamente da solo credo che sia meglio morire." Pigolò di nuovo, notata la nuva distanza che li separava, le sue labbra che un po' fremevano nel lento desiderio di averlo di nuovo così vicino. Ma beh, se aveva deciso di allontanarsi un motivo ci sarà, forse.
    Osservando con lentezza la propria mano ancora poggiata sul suo viso, sfiorò la rada peluria che caratterizzava il volto del sempre eterno ragazzo, soffermandosi a carezzarne la guancia col pollice con l'espressione di chi, da un momento all'altro, si sarebbe messa a piangere senza destare alcun sospetto. Un'espressione rasserenata, non sofferente, quell'espressione che hai quando vedi qualcosa che ti emoziona. "La mia vita è insignificante come al solito, ma ci sto bene." Sussurrò allontanando la mano dal suo viso lasciandola cadere distrattamente lungo il proprio corpo, abbandonata mentre ancora la sinistra sfiorava il suo petto. "Avresti dovuto avvertirmi. Sai perfettamente quanto tenga a te, nonostante continui a far finta di non saperlo. Spero che con l'eternità imparerai a trattare bene le persone che tengono a te."

    "Ah, davvero? Se sapevo che c'erano problemi in paradiso avrei provato ad agire prima." Balenò nella mente della ragazzina un brivido. Quel tono di voce, quella saccenza insopportabile di Genevieve che sembrava essere diventata una spettatrice interessata di quel siparietto falsamente romantico. Con un sorriso scosse la testa, come nella realtà provare a cancellare quel pensiero completamente non da lei. I suoi occhi, bellissimi, sembravano da un po' scrutarla in modo sempre diverso. Si sentì strana, a ritrovarsi nella coscienza di avere un vampiro proprio davanti a sé, se anche lui si stesse trattenendo dall'ucciderla o che semplicemente ci fosse qualcosa di differente in lui.
    Di certo non sapeva che quello sguardo aveva l'unico intento di creare un contatto con la mente della serpeverde che, no, sembrava non star pensando a niente se non a quanto fossero strani i suoi occhi, visti così da vicino.
    Probabilmente, il pensiero di una ragazzina di quindici anni e nemmeno di fronte al ragazzo che si rende conto di aver ritrovato ma di non poter avere. Sospira, come a volersi con lo sguardo incamerare quanto più possibile la sua immagine nella propria mente. "La sua mano è fredda, è proprio morto..." Mormorò di nuovo quella vocina un po' stronza nella propria mente, quella che riportava alla realtà la ragazzina che, con gli occhi verdi ricoperti di una lucida patina continuava a sfiorare il suo viso in una nuova vicinanza dovuta anche a quel suo contatto, la sua mano sulla propria. Non dice nulla, ascolta soltanto quelle parole che sanno di dolore e di pura rassegnazione in quella vita che al solo immaginarla la spaventa da morire. "Non abbatto nulla e nessuno, la mia vita è così, ma ciò non significa che non ne ami ogni singolo istante." Sussurrò come a sottolineare il valore importanza di quell'istante, nei confronti della sua vita eterna, nel quale c'erano soltanto loro due e nessun altro. Chiuse gli occhi, mordendosi con forza le labbra prima di sospirare e allontanare la mano dal suo viso per tentare di allontanarsi da lui senza alcun risultato positivo. Lo sguardo basso mentre quasi a peso morto abbandona la testa contro il petto gelido del ragazzo, sospirando con le labbra tremanti e gli occhi che, adesso, a fatica mantengono delle lacrime innocenti.
    "Sai che me ne fotte dei tuoi segreti del cazzo." Mormorava nella sua mente, imbronciata mentre con un respiro pesante tentava ancora di trattenersi. Diciamo che piangere e fare scolare tutto il trucco non si addice ad una vera principessa. E soprattutto non voleva per niente piangere. Che cosa da stupidi piangere. Mormorava, fra sé e sé, parole senza senso, sospiri e piccoli rumori come se fosse nel tentativo vano di pronunciare una frase di senso compiuto, annebbiata dalla patina trasparente sopra i propri occhi e con il cuore che sembrava battere a mille mentre il suo, presumibilmente contro l'orecchio della serpeverde, sembrava proprio non battere, nemmeno un solitario battito. Come se quasi stesse parlando solo a sé stessa, brontolando mentre adesso il suo busto di giovane donna aderiva innocentemente al suo.
    "Che cosa sono massimo novant'anni nei confronti della tua eternità."
    "Non andartene di nuovo."


    Edited by TheFedIvan - 19/1/2017, 00:13
     
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    chaos

    Piccola anima
    che fuggi come se
    fossi un passero
    spaventato a morte
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    Qualcuno è qui per te,
    se guardi bene ce l’hai di fronte.
    Fugge anche lui per non dover scappare.
    Se guardi bene ti sto di fronte.
    Se parli piano, ti sento forte.

    Quello che voglio io da te
    non sarà facile spiegare.

    Non so nemmeno dove e perché hai perso le parole
    ma se tu vai via, porti i miei occhi con te.

    Piccola anima,
    la luce dei lampioni ti accompagna a casa
    innamorata e sola.
    Quell’uomo infame non ti ha mai capita.
    Sai che a respirare non si fa fatica
    È l’amore che ti tiene in vita.

    Quello che voglio io da te
    non sarà facile spiegare.
    Non so nemmeno dove e perché hai perso le parole
    ma se tu vai via, porti i miei occhi con te.

    Camminare fa passare ogni tristezza.
    Ti va di passeggiare insieme?
    Meriti del mondo ogni sua bellezza.
    Dicono che non c’è niente di più fragile di una promessa,
    ed io non te ne farò nemmeno una.

    Quello che voglio io da te
    non lo so spiegare,
    ma se tu vai via, porti i miei sogni con te.


    Piccola anima,
    tu non sei per niente piccola.

    ermal meta - piccola anima

     
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    PAIOLOMAGICO - MARZO 2017


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    vz97ur4
    Gli occhi di Pauline erano lucidi mentre i lunghi capelli lisci e castani scivolavano sul suo viso in una massa deforme. Il volto sembrava trasfigurato, l'espressione della ragazza era contratta in una smorfia di dolore, la stanza in completo disordine, tutte le sue cose gettate per terra. Il suo corpo tremava interamente, mentre inginocchiata sul terreno sentiva il busto scuotersi in ansiti e gemiti incontrollati di chi non riesce a contenere un dolore forse troppo forte. Sembra facile, per qualcuno come me e te che stai leggendo, superare un dolore sentimentale ma lei non ci riusciva. Non riusciva a capire come tutto stesse andando in questa maniera così sbagliata, come e perché "tutto questo dolore un giorno ti sarà utile" per lei "quel giorno" sembrava non arrivare. Scosse la testa tirando su i capelli mentre ricordava lo sguardo assorto e perso nel vuoto di Timmy che le aveva consegnato fra le mani con quella giovane ed innocente felicità una scatola con un regalo ed un biglietto.
    Aveva ricevuto fra le mani quella scatola chiusa con un bel fiocco bianco che teneva al suo interno un lungo vestito nero con dei perfili e delle balze morbide color panna; indossando l'abito la ragazza si era guardata allo speccio, con le lacrime che ancora le rigavano il viso ed i capelli scarmigliati su tutto il corpo, e si era resa conto di quanto quel dolore fosse provocato più da un misto di emozioni che dalla sola ed unica paura di rivedere Lestat. Perché sì, era chiaro come il sole che quel biglietto fosse stato di Lestat, era chiaro come il sole che alludesse alla sua scomparsa a pochi millimetri dalle sue labbra circa un anno prima nel San Valentino più brutto di sempre, era chiaro come il sole che vuoi o non vuoi, inqualsiasi circostanza si fosse trovata, lei sarebbe andata con lui ovunque volesse.
    Perché sì. Pauline era debole, Pauline era vittima degli eventi e non faceva nulla per evitarlo, Pauline era certa che sarebbe bastata una sola parola di Lestat per buttare giù una montagna intera e tutti lo sapevano. Lo sapeva lei, lo sapeva Mael, lo sapeva Lestat - altrimenti non si starebbe comportando in questa maniera così infame - e lo sapeva anche Genevieve.
    Perché lei, nonostante non ci fosse più una massa riccioluta di capelli arancione carota era sempre lì, seduta in un angolo ad aspettare il momento giusto per emergere, il momento giusto per difendere Pauline. Anche se, ancora non so dirvi quanto quel "difendere Pauline" fosse sul serio una mossa dell'inconscio stesso della serpeverde o se fosse qualcun altro ormai non importava perché qualsiasi pensiero veniva annebbiato ed offuscato da lui.
    E lei continuava a ripetersi che era giusto, continuava a ripetersi di voler chiudere un cerchio, continuava a ripetersi che lui doveva essere un ricordo passato e che quello non poteva che essere un gesto per porre fine a qualsiasi problema, a qualsiasi ricordo, una tabula rasa di una discussione chiusa, morta e sepolta. E continuava a ripeterselo indossando il mantello dell'invisibilità che odorava di lui, quel surrogato di Mappa di Malandrini che sapeva aver toccato subito dopo di lui fino a quando non arrivò a destinazione. Aveva una lacrima, che scivolava lungo la guancia, se la pulì col dorso della mano prima di spingere piano la porta, coperta da una pesante cappa color antracite.
    Quando raggiunse il Testa di Porco, Lestat era poco distante dall'entrata. Il suo viso era esattamente come lo ricordava, poteva percepire il freddo glaciale della sua pelle e per un attimo dovette scostare la testa di lato per prendere un respiro ed avvicinarsi.
    La trovava radiosa, lei lo trovava morto, ma non glielo disse. Quando si ritrovò a guardare Lestat negli occhi si perse in quelle iridi ghiacciate e venne trascinata rapidamente verso la macchina al di fuori del locale. Vi entrò, tremando nel percepire quanto fosse reale ogni suo singolo gest
    Non aveva pronunciato una sola parola, nel percorso, non aveva pronunciato una sola parola quando raggiunsero una tenuta ricca e suntuosa, non aveva pronunciato una parola quando Lestat aveva preso delle armi dal portabagagli dell'auto. Si era limitata a guardare avanti, in un vuoto oltre lei con gli occhi visibilmente rossi e gli aveva stretto la mano. Come sempre, come vita, come se dipendesse solo da lui.
    Poco le importò dei suoi movimenti, poco le importò della richiesta di bere alla quale annuì con distrazione guardandosi intorno senza necessariamente osservare: strinse la sua mano con forza, artigliando le dita alle sue prima di intrecciarle con forza come a non volerle fare andare via, come a voler imprimere sulla sua pelle la consistenza della sua, come a voler immaginare quanto potesse essere reale quel ricordo che li vedeva insieme.
    Gli strinse la mano, senza dire niente, senza pensare a niente.
    Tutto sembrava aver perso significato.
     
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    Extract - King's second wife

    LVyDVv5
    "S
    tai qui." Lui le strinse forte il polso, bloccandola nel suo allontanarsi a passo svelto. Lei scosse la testa e con un brivido alzò lo sguardo verso di lui, il viso perfettamente squadrato ed i suoi occhi verdi entrarono nella sua vista smeraldina. "Stai qui, rimani con me, non andare via." Ma lei stava già scuotendo la testa. "Non andare. Rimani. Potrei mollare qualsiasi cosa per te". Continuò lui in quella che sembrò essere la supplica più dolorosa di sempre, come quel distacco che si faceva forte ma tenuto in piedi da quella stretta della sua mano nel polso di lei.
    "Hai una vita ed una famiglia. Ti rendi conto di quante stronzate stai dicendo, vero?" Lo rimbeccò pochi attimi Pauline, abbassando lo sguardo prima di trattenersi dal portarlo a ritrovarsi a parlare con Genevieve. Un babbano non può vedere i poteri di un mago, va contro la legge.
    E poi, si sentiva già un mostro di suo, non aveva senso ufficializzare sotto altri punti di vista le sue fattezze. "Tu dimmi che rimani ed io mollo tutto. Abbandono tutto e ti seguo, ovunque e comunque." Rispose, ripetendo di nuovo quella frase che a Pauline sembrò essere una semplice presa in giro. Non capiva come fosse possibile che qualcuno, qualcuno come Franz potesse, come qualcuno nella condizione di Franz potesse dirle quelle parole con la quella fermezza che mandava tutti i segnali di realtà ma che lei non riusciva a credere quasi per deformazione professionale. Anni ed anni di insicurezze, di dolori. Come faceva a distinguere la realtà dalla finzione? Lei stessa aveva creato un teatrino intorno ad una funzione, ad una finta immagine di sè.
    Era tutto finto, era tutto un gioco, per lui - lei ne era irrimediabilmente certa, nonostante si sforzasse di non farlo -; per lei: chi lo sa. Nemmeno lei stessa lo sapeva.
    Non voleva qualcuno che mollasse tutto per lei, non si arrogava il diritto di considerarsi migliore, non si sentiva tale.
    "Sei completamente impazzito." Si divincolò dalla sua presa quasi a malincuore, alzando di scatto la mano prima di allontanarsi e metterla in tasca. Era stufa di amare in segreto, era stufa di non essere mai quella scelta ma quella che si fa scegliere, quella che si impone nella vita di qualcun altro senza guardarsi intorno, era stufa d'esser la seconda moglie del re per l'ennesima volta.
    Lo era stata con Lestat, imponendosi nella sua vita nonostante Giuliet fosse ancora enormemente innamorata di lui. Pur d'avere una concretizzazione di qualcosa di ormai troppo lontano dalla sua concezione di "amore". Una ricerca spasmodica d'amore, di quel brivido nel sentirsi dire di essere sua, in quel sospiro forte nel baciarla. "Ti ho detto che ti amo, ti ho detto che mollerei tutto per te, ti ho detto che sei il primo pensiero la mattina ed il mio ultimo prima di andare a dormire." Continuò lui, probabilmente nella dichiarazione d'amore più bella che lei avesse mai avuto. "Ti amo, Pauline Ledrec. Ti amo più d'ogni altra cosa, più della mia vita stessa. Non andartene. Sei nell'aria che respiro, sei nei i vestiti che indosso, nelle parole che pronuncio. Io senza di te non sono nulla. E abbandonerei tutto, pure la mia stessa vita. Lo so dal primo momento in cui ti ho vista."
    Ci fu un attimo di silenzio, l'attimo in cui l'ex serpeverde aveva guardato attentamente il suo viso per l'ultima volta, stringendomla sua valigia di pelle con la mano prima di abbassar pianonlo sguardo in un sorriso amaro, malinconico. "Se lo sapevi dal primo momento in cui mi hai vista, è troppo tardi per mollare adesso."
    Poi riprese a parlare, dopo un lungo silenzio. Un lento inspirare col naso.
    "Non ti ho chiesto nulla di tutto questo, non ti ho chiesto di lasciare Emilia per stare con me, non ti ho chiesto di fuggire, non ti ho chiesto mai nulla. E se l'idea che io non sia più qui, pronta ad amarti come vorrei fare per il resto della mia vita risulta essere l'unica cosa che ti fa pensare di voler mollare tutto, mi sa che non hai le idee poi così poco chiare.
    Non ne posso più d'essere la seconda moglie del re. Non ne posso più di essere la seconda scelta. E adesso basta, che svegliamo tutto il vicinato."
    Abbassò radicalmente la voce scuotendo la testa prima di pulirsi la guancia con le dita che ancora tremano.
    "Io ho scelto te." Replicò, ma Pauline in realtà poco ci credeva. Non perché non credesse alle sue parole, che magari erano sincere per carità. Ma non voleva crederci.
    "Ed io ho scelto me stessa." Replicò, incrociando i piedi davanti a sè per accennare una giravolta prima di scomparire.
    Così Pauline Ledrec passava le notti, ricordando in lacrime la volta fatale in cui aveva scelto la cosa giusta per il futuro e non per il presente.
    Code © TheFedIvan


    Edited by TheFedIvan - 27/3/2017, 21:34
     
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    Extract - Nightmare

    Ioz7Kji
    E
    ro in una strana stanza. Era vuota, tutta bianca ed un attimo dopo, ad un leggero sbattere di ciglia mi ritrovavo in una stanza dai contorni sfocati, dalle tonalità calde e dalla visuale particolarmente confusa. Ero seduta per terra, con le gambe molli come se mi fossero state spezzate tutte le ossa e le mani che tremavano a fatica mentre tentavo di mettermi quanto meno seduta ed osservare intorno a me cosa ci fosse. Come se mi fossi svegliata tramortita da un colpo in testa o, che ne so, da un incantesimo confondente: ancora non mettevo bene a fuoco nulla di ciò che si trovava intorno a me. Ero ancora sdraiata, tramortita da qualcosa che mi impediva di muovermi ed alzavo lo sguardo verso il cielo aprendo e chiudendo gli occhi più volte nel tentativo di mettere bene a fuoco ciò che avevo intorno.
    Non era facile, per niente, ma iniziai a recuperare una vista nitida quanto bastava per osservare il soffitto affrescato del grande salotto di casa mia.
    Cosa c'era che non andava? Perché ero sdraiata al centro del salotto? A fatica tentavo di alzarmi sempre più lentamente, tentando quasi si comprendere dove mi trovassi mentre nel frattempo tentavo di mantermi quanto meno in posizione seduta. Le mani tremavano, non muovevo molto il corpo, ma riuscivo a vedere adesso in maniera nitida ciò che avevo intorno. Che strano... Sembrava essee tutto sottosopra, tutto completamente in disordine.I mobili scaraventati a destra e a manca, lontani dai loro posti originari, i quadri e le fotografie accatastate in un cumulo di macerie e schegge vetrose, tutto intorno a lei sembrava essere stato risultato di un passaggio di una mandria imbufalita di bisonti. Mi guardavo intorno, vedevo i muri di legno graffiati e deturpati da chiazze di sangue e tracce di diverse origini che non riuscivo ad accertare. Quando riuscii ad alzarmi per un attimo non persi l'equilibrio, poggiando la mano contro il tavolo da pranzo, sgangherato e leggermente abbrustolito da chissà quale maleficio. Tutto mi faceva male ma tentavo di non concentrarmi sul corpo che fremeva mentre osservavo la distruzione nella stanza che avevo davanti. A terra, alcuni corpi, quasi ammonticchiati o come se, da abbracciati, fossero crollati i sostegni dei loro corpi abbandonando le loro salme alla forza di gravità. Appena riconobbi il volto di quelle tre figure, strette fra loro in quelle che, se fossero state piene di vita, sarebbero state delle forti strette piene di terrore, per un attimo non persi anche io la sensibilità nelle gambe. C'era qualcosa che dentro di me mi faceva fremere di dolore, vedendo il volto sfigurato, ma ancora riconoscibile di mio padre, mia madre e di Victor che, invece, sembrava essere addormentato in un sonno eterno, quasi risparmiato da quei dolorosi supplizi che gli altri due componenti della famiglia avevano dovuto subire.
    Per un attimo gli occhi mi si riempirono di lacrime, sospirai pesantemente, sentendo la mia voce rendersi roca sotto i tremori della paura, scuotendo la testa a destra e a sinistra in cerca di quella persona che, non stando lì, ormai volata via dal proprio involuco carnale, poteva ancora essersi salvata. Corsi, rapidamente, verso le altre stanze, distrutte così come tutto il resto della casa. Non mi restava che, nella desolazione e nello scricchiolio delle scale lignee mentre lentamente le salivo alla ricerca di mio fratello.
    Di Costance nessuna traccia, fino a quando non udii degli scricchiolii all'interno della porta che avrebbe dato accesso alla stanza di mia nonna. Strinsi il pomello della porta, torvandola stranamente aperta e seduto lì, a grambe incrociate come se nulla fosse, c'era mio fratello. "Per fortuna ti ho trovato, Costance, mamma, papà, Vitti, non ci sono più, meno male che tu ti sei..." Salvato, avrei voluto dire eppure non ci riuscii. Non perché accadde qualcosa di estremamente spaventoso ma semplicemente perché vidi mio fratello guardarmi con l'espressione di chi, in quell'istante, non aveva più un anima. L'espressione impallidita, gli occhi di un glaciale biancore, vittima della sua metamorphomagia che li trasformava in base ai suoi stati d'animo, come se non fosse in sé teneva stretto in una mano il proprio catalizzatore mentre l'altra teneva in alto, davanti alle labbra, un indice insanguinato come il resto della mano. "C-cosa succede..." non ebbi nemmeno un attimo, nemmeno per un istante la possibilità di parlare che mio fratello rise. Una risata sghemba e maligna, mentre mi osservava e scuotendo la testa con aria quasi rassegnata portava in avanti la bacchetta magica. "Meglio non urlare, in queste circostanze. Sveglierai i vicini..." Mormorò, prima di stringere, senza alcun tentennamento il proprio catalizzatore nella mano destra, allungata verso di me. "Non riesco nemmeno ad immaginare quanto tu possa essere stupida. In quattordici anni non sei riuscita completamente a comprendere quanto ti odiassi." I miei occhi erano orai la meravigliosa base per una fontana. Lacrime che cadevano rapide inumidendo la mia guancia arrossata per il calore e tremante per la confusione. Non riuscivo a muovermi bene mentre lentamente con una mano tentavo di stringere i pugni, tentando di farmi forza da sola, fallendo miseramente.
    Non riuscivo a muovermi, non riuscivo a far nulla se non tentare di muovere piano un piede dopo l'altro alla ricerca di una sorta di maggiore vicinanza, di un tale contatto che mi aiutasse a permettere a mio fratello o a ciò che ne rimaneva, di tornare in sè. Il buono, lo chiamavamo in famiglia, non riuscivo ancora a comprendere come poteva essere accaduto tutto ciò. E mi sentivo male dentro ad immaginarlo finire i nostri stessi genitori con tale facilità, con quella stessa espressione che detestava il suo bellissimo volto che adesso mi rivolgeva.
    "Addio, Pauline. Avada Kedavra."
    Aprì gli occhi di scatto, la serpeverde, teneva fra le mani ancora l'ampolla che conteneva quel liquido dalle tonalità grigiastre, grigio come il colore degli occhi del fratello che, con quella tale facilità sarebbe addirittura riuscito ad uccidere la sua famiglia. Ricordava perfettamente, mentre si stringeva ben salda alla sedia alla quale si era appoggiata prima di testare quella strana proiezione astrale offerta in quel liquido grigio dentro l'ampolla. Non poteva immaginare quanto sarebbe stato difficile subire una maledizione senza perdono, tanto che il proprio corpo fremeva tutto, completamente intorpidito da quelle sensazioni così realistiche che ancora la spaventavano. Non disse niente, tenendo gli occhi chiusi mentre con una mano ben stretta intorno all'ampolla vuota tentava di ripercorrere gli ultimi secondi della vita che per un attimo aveva vissuto in quella illusione.
    Doveva saperne parlare, quanto meno. Non era una cosa di tutti i giorni morire, no? Ricordava perfettamente nella propria mente l'immagine del fratello che, con gli occhi adamantini osservava la ragazza e proiettava su di lei una saetta verdastra. Poi, tutto diventava bianco. Bianco come l'immagine precedentemente avuta della stanza in cui si trovava. Però, nulla sembrava materializzarsi davanti a sé. Sentiva il proprio corpo intorpidirsi completamente, le membra fremere, il cuore battere sempre più lentamente. C'era qualcuno che diceva che la morte per Avada Kedavra era una morte rapida e quanto meno indolore (per quanto "indolore" potesse essere la morte stessa), eppure, lei aveva sentito quegli ultimi attimi prima di "morire" rallentare tutto ad un tempo così lento da farle addirittura paura.
    Aveva ancora, dentro le palpebre, quell'istante, che nella morte le sembrava essere infinito, di quel verde chiaro, un bellissimo verde, oltetutto. Fu particolarmente difficile per Pauline considerare un colore così bello associato alla Morte, alla più grande paura di tutte.
    Un rallentare che, ha reso millesimi di secondo lunghi quanto un secondo. Ed un secondo, quando hai soltanto quello da vivere, è davvero tanto. Tutto il corpo si intorpidiva, non tremava più, ma nemmeno si muoveva. Probabilmente, il corpo esanime della ragazza sarebbe caduto lentamente sulla schiena, come svegliandosi da un sogno, aveva reso quell'ultimo secondo di vita una caduta a rallentatore. Ricordava che, dopo aver visto quell'attimo di luce verdastra tutto aveva perso colore. Non vide il proprio cadere all'indietro, un osservare il soffitto ornato della stanza della nonna o il corpo del fratello camminare oltre la propria salma. Tutto scompariva e tutto quanto altrettanto diventava ovattato, nessuna sensazione mentre il proprio corpo perdeva peso.
    Solo quello ricordava, una sensazione di essere sospesi nel vuoto, senza alcuna sensazione intorno.
    Code © TheFedIvan

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